Città d’autore/26: Latina, quadrata pure nella forma. La lunga memoria della sua breve vita

Antico è la parola d’ordine tra i palazzi moderni dove tutto è mito: bonifica, zanzare e pionieri

0-latina_f3.JPG.pagespeed.ce.fapiwHEX6a 0-latina_f4.JPG.pagespeed.ce.rQ1qPh6_Cp 0-latina2.JPG.pagespeed.ce.sKGA_-Pj9bLatina – La prima cosa che ti dice chi arriva a Latina in macchina è: mi sono perso. Non importa quanto precise siano state le istruzioni impartite per mail o al telefono: finché viaggiano sulla Pontina va tutto bene, ma appena varcato il fatidico cartello di Benvenuti a Latina scatta il panico totale. Il fatto è, spiegano loro, che non ci sono punti di riferimento: una vasta distesa di palazzine a pochi piani, una ragnatela di vialoni diritti irriconoscibili l’uno dall’altro e una serie di sensi unici che sembrano fatti apposta per riportarti di continuo al punto di partenza. L’intero centro storico è in realtà un riuscitissimo esempio di architettura e urbanistica razionalista, metafisico come un quadro di De Chirico e attraversato da un gioco di affascinanti prospettive incrociate che però inevitabilmente confondono i forestieri. Latina è geometrica. Non c’è neanche una piazza rotonda, per dire, perché le piazze sono tutte quadrate, al massimo rettangolari. Una addirittura è così quadrata che l’hanno chiamata proprio “Piazza Quadrato”. È anche vero però che a forza di dare indicazioni ai turisti smarriti uno arriva a domandarsi cosa ci sia di così razionale in una città dove la gente si perde ogni due minuti.

Gli unici che ci si sono trovati bene, proprio per via di quelle strade lunghe, dritte e soprattutto pianeggianti, sono stati gli alpini, che qualche anno fa sono venuti a fare l’adunata nazionale a 21 metri sotto il livello del mare. Ma loro sono abituati alle mulattiere di montagne, e poi in ogni caso avevano cartelli in ogni dove che segnalavano la direzione per arrivare all’adunata, rendendo agevole ogni spostamento. La cosa non cambia neanche al di là della circonvallazione, l’anello stradale che delimita il centro storico. Qui di razionalismo non c’è più traccia, sostituito da un disordinato e molto creativo spirito di speculazione edilizia. E pure, ci si perde lo stesso. Adesso un po’ di meno, a dire il vero, da quando hanno costruito la Torre Pontina, un enorme grattacielo che domina, o meglio costituisce, la skyline cittadina. Qui i quartieri hanno nomi da satellite spaziale, tipo Q4 o Q5, e l’amministrazione si è presa la rivalsa su tutte quelle piazze quadrate del centro disseminando gli incroci di una lunga teoria di rotonde, che comunque neanche loro sembrano essere di grande aiuto all’orientamento dei visitatori.

L’unico inconfondibile punto di riferimento, a detta di tutti quelli che ci si imbattono, è il celeberrimo Monumento all’Aviatore, piazzato proprio nel bel mezzo di una rotonda. Trattasi di un aeroplano (vero) decorato di tricolore e piantato su un piedistallo marmoreo con il muso puntato verso l’alto. Roba futurista, dice qualcuno. L’ha voluto l’allora sindaco, un arzillo ex ragazzo di Salò che negli anni ’90 ha fatto di tutto per restituire alla città l’ardimentoso spirito pioneristico della fondazione. E però Latina è fatta così, e se ci venite spesso vi ci dovete abituare. Un’ordinata confusione di linee rette che s’intrecciano e s’incastrano tra di loro. È una città che disorienta. D’altronde è ancora “in progress”, continua a crescere: ha solo ottant’anni di vita, anche se tutto in lei odora di mito. Paradossale anche questo, tutto sommato: la più giovane città italiana vive imbevuta del mito della propria creazione. L’unico, apparentemente, capace di definire un’identità collettiva. Ma si tratta di un’identità fragile, anzi fragilissima, proprio perché costruita sul mito e non sul vissuto reale. Costruita su una storia condivisa da pochi dei suoi attuali abitanti.

A Latina tutto è mito: la bonifica, le zanzare, i pionieri. Perfino i tombini, dove si legge ancora la scritta Littoria. Pare addirittura che ci siano persone disposte a pagare moneta sonante per averli in casa, quei dischi di piombo decorati con il fascio littorio. Tanto che qui è nata una nuova razza di tombaroli specializzati: i cosiddetti tombinaroli. Latina è la città con meno storia e più memoria che ci sia in Italia. Qui la parola di cui si sente un’irresistibile bisogno è antico. C’è perfino un ristorante che si chiama Antica Littoria, sebbene Littoria sia a tutt’oggi meno antica di mio nonno. La questione del nome poi continua a generare discussioni inesauribili: Latina nacque Littoria, e tale rimase per i primi quattordici dei suoi attuali ottanta anni di vita. E ogni tanto spunta fuori qualcuno a proporre un ritorno all’antica denominazione. Littoria come il più fascista degli aggettivi, per cui il mito delle origini finisce sempre per sciogliersi in un senso di riconoscenza verso il regime. Anzi, a volerla dire tutta, verso il Duce in persona. Che senza di lui tutto questo non ci sarebbe mai stato, ripetono ancora oggi in molti.

Quello che sorprende però non è la carica politica di quell’interpretazione (tutto sommato abbastanza fievole) ma la sua dimensione antropologica, mitopoietica, fin quasi salvifica. Qui il fascismo è folclore. E in quanto tale riguarda la memoria, la contamina e la trasfigura in simbolo e pratica quotidiana. Come succede ogni prima domenica del mese, ad esempio, quando nella centralissima (e squadrata) Piazza del Popolo si tiene il “Mercatino della memoria”. Aggirandosi tra le bancarelle, insieme a dischi e libri di seconda mano si può trovare ogni genere di cimelio del ventennio. Busti del Duce, stampe di propaganda coloniale e vecchi numeri de ‘La difesa della Razza’. Qui la rivoluzionaria impresa della bonifica si stinge in commemorazione feticista del regime che la produsse, in un’atmosfera sospesa tra una fiera rionale e una scanzonata apologia del fascismo. Ma non c’è cattiveria, solo il sapore del tempo perduto, di indimenticabili bravate, di una giovinezza che è diventata solamente il titolo di una canzone dei bei tempi andati. A Latina c’è addirittura un parco intitolato a Mussolini. Una volta si chiamavano semplicemente Giardinetti pubblici, e tutti erano contenti così. Poi, sul finire dello scorso secolo l’allora sindaco, lo stesso del monumento all’Aviatore, decise di ribattezzarli Parco Mussolini.

La proposta non provocò particolari reazioni tra i latinensi, abituati ormai alle nostalgiche stravaganze del loro primo cittadino, ma chi ebbe qualcosa da ridire fu Gianfranco Fini. Erano gli anni della svolta di Fiuggi, e Fini richiamò a Roma l’ex ragazzo di Salò per dargli una sonora strigliata e intimargli di cambiare idea. Quell’altro, dal canto suo, sbatté i tacchi e disse solo: obbedisco. E il parco lo chiamò Arnaldo Mussolini, in onore del di Lui fratello. A me però, che ci ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza, provoca un certo fastidio vedere che all’entrata del parco dove ho imparato ad andare in bicicletta (senza rotelle) oggi ci sia un cartello con sopra stampato lo stesso cognome che si legge in calce all’atto d’emanazione delle leggi razziali. Come se sul teatro delle mie prime pomiciate adolescenziali aleggiasse un’ombra di tragica negligenza. La negligenza con cui questo paese ha affrontato la questione delle proprie responsabilità verso l’Olocausto. Non è una bella sensazione, credetemi. Ma al di là delle pacchiane celebrazioni del regime, Latina ha avuto una nascita dai contorni talmente epici da rendere inevitabile la nascita del mito della sua bonifica. Un’impresa titanica, ma con la quale si finisce sempre per far nascere e concludere l’intero processo di definizione dell’identità cittadina, come se la città non fosse mai diventata altro. Un’identità legata a un singolo frammento di storia e che quindi finisce per configurarsi ad excludendum, perché di fatto ignora che la stragrande maggioranza degli attuali abitanti della città nulla condivide dell’esperienza pioneristica. È gente arrivata dopo, talvolta molto dopo. Latina è cresciuta soprattutto negli anni ’60 e ’70, grazie alla forte immigrazione dalla Campania e soprattutto dai Monti Lepini.

E oggi continua a crescere soprattutto in virtù dell’immigrazione extracomunitaria, in primis romena e maghrebina. Inoltre, fin dal primissimo dopoguerra le politiche nazionali hanno mirato a far della città un polo di accoglienza per gli sfollati di ogni dove: dai rifugiati istriani del primo dopoguerra, per i quali fu costruito un intero quartiere – il Villaggio Trieste – fino ai cosiddetti “tripolini”, cioè gli italiani in fuga dalla rivoluzione di Gheddafi in Libia. A Latina ci misero anche un campo profughi, l’ultimo a chiudere in Italia, nel 1990, subito dopo la caduta del muro. Un posto dove transitavano i rifugiati in fuga dall’est europeo, persone di tutti i generi, da Tarkovskij a Cicciolina. E alcuni di loro finirono per rinunciare al viaggio in Canada o negli Stati Uniti e rimanere in loco. Fu allora, negli anni ’80, che sui citofoni iniziarono a spuntare cognomi rumeni e polacchi, molto prima che l’immigrazione da quei Paesi assumesse le attuali dimensioni. I primissimi esempi di immigrazione extracomunitaria che si faceva stanziale, rimescolando ancora di più il complesso Dna cittadino. Io a Latina ci sono arrivato dalla Toscana all’inizio degli anni ’70, quando avevo quattro anni, e ci ho vissuto fino ad oggi, ad eccezione di un lungo e felice intervallo all’estero. Gli amici con cui sono cresciuto sono nati a Norma, a Sezze Romano, a Messina, Nocera Inferiore o Bengasi. Con i figli e i nipoti del coloni veneti e romagnoli non ho mai avuto molti contatti, e non certo perché io abbia qualcosa contro di loro: semplicemente non ne conosco. D’altro canto è nei borghi di campagna che si concentrano le famiglie coloniche, e non in città, dove ho sempre vissuto io.

Da una decina di anni abito al quartiere Nicolosi, il primo esempio di edilizia popolare cittadino, nato ai tempi della bonifica per ospitare le famiglie degli operai impegnati nell’edificazione di Littoria. Situato appena al di fuori della circonvallazione, e quindi del centro storico, oggi il Nicolosi è un quartiere che mantiene a pieno titolo la sua vocazione popolare e operaia. Solo che la lingua franca non è più il veneto, ma il romeno, e invece delle osterie ci trovi kebab shop, ristoranti cinesi e barbieri indiani. E forse è proprio al quartiere Nicolosi dove il divario storia/memoria si fa più forte, il mito si fa più inconsistente e la realtà finisce per oscurarlo completamente. Dove la città chiusa, fondata su un’identità così mitopoietica da impedire ogni identificazione ai nuovi arrivati, si fa aperta, accogliente e inclusiva. Il bisogno di antico qui non esiste. Il passato non conta. C’è solo un vorace sguardo verso il futuro, verso migliori condizioni di vita, oltre un presente fatto solo di case in affitto e lavoro sottopagato. Una pulsione vitale imbevuta di desiderio, fiducia ed energia terzomondista. In questo, sicuramente, persiste il lascito più profondo degli antichi pionieri ai nuovi migranti. Nell’ostinata ricerca di una vita migliore, nell’essere sfida, nel desiderio di trasformazione. E non certo nell’irresponsabile topografia locale o nelle grottesche cianfrusaglie in vendita al Mercatino della Memoria.

Fonte http://www.corrierenazionale.it/tempo-libero/viaggiare/2013/04/27/news/96278-Citta-d-autore-26-Latina-quadrata-pure-nella-forma-La-lunga-memoria-della-sua-breve-vita

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