LA BONIFICA DI PAPA PIO VI

La Bonifica di Papa Pio VI.

PIO VI ( Giovanni Braschi 1775-1799) subito dopo la sua elezione al soglio pontificio si interessò alla proposta di bonificare la Palude Pontina sia per motivi economici (era infatti seriamente preoccupato di incrementare la produzione agricola per ottenere dei tributi; nel territorio delle paludi infatti, se ne traevano ben pochi) sia per motivi di prestigio che sarebbero derivati dal successo dell’impresa. Indisse il 28 maggio 1775 una riunione della Camera Apostolica sul problema incontrando però opposizioni soprattutto da chi non voleva gravare di “inutili” spese le casse pontificie. Le maggiori difficoltà furono sollevate dai proprietari dei terreni: benché la maggior parte dei lavori gravassero sulla Camera Apostolica questi dovevano partecipare alle spese come contribuenti classificati di primo o di secondo grado. Infatti la regione da bonificare venne divisa in due parti : il circondario interno (Terracina, Sezze, Sermoneta e Bassiano) cioè quel territorio che avrebbe ricevuto immediati vantaggi in quanto veniva sempre inondato e di conseguenza coltivato solo per brevi periodi (primo grado) ed il circondario “a giovamento mediato delle imprese” in cui il territorio era posto fuori dalla zona di bonifica, ma adiacente e che era solo episodicamente inondato (secondo grado). Pio VI si documentò sui tentativi fatti nel passato e notò che avevano tutti un carattere locale ed erano stati effettuati da privati. Capì i limiti di una bonifica per parti e stese un piano per un intervento globale su tutto il territorio Pontino. Più dei problemi tecnici Pio IV si rese conto che il vero ostacolo era costituito da proprietari della terre; per non creare malcontenti, nominò un commissario legale con il compito di fare deporre ad ognuno di questi le proprie ragioni e di conciliare le molte liti e pretese con compensi economici. Gli accordi furono presi separatamente con ciascuna comunità e con ogni singolo proprietario; la palude era infatti, per chi vi abitava o per chi se ne serviva nei periodi non malarici, un’ottima fonte di guadagno. La malaria era quindi la causa principale dello spopolamento dei territori “… in quanto non infieriva solo sull’uomo uccidendolo o debilitandolo, ma con analoga, sebbene non identica specie parassitaria, gli animali utili”. L’uomo doveva fuggire sui monti per mettere in salvo la vita e pochi restavano, nello squallore della campagna e nella solitudine delle lestre a guardia di pochi animali bradi e selvaggi.

C’erano piccole superfici di terreno fertile e chi possedeva o dei pascoli od esercitava il taglio della legna o la caccia o utilizzava le peschiere, ne ricavava forti profitti, senza pagare tasse. Infatti benché molti Pontefici avessero riconosciuto alle comunità il diritto di prosciugare e quindi coltivare le zone paludose, non vollero quasi mai esercitare tale diritto, limitandosi all’esercizio dei diritti del pascolo, del legnatico e della pesca.

Molte di queste attività ed in particolare le peschiere prima causa della formazione di paludi, erano abusive e chi possedeva terreni aveva tutto il vantaggio a renderli paludosi perché esenti da tasse.

I vari proprietari terrieri tra i quali i conti Caetani, famiglia che da secoli dominava illegalmente i territori esercitando un potere privato superiore a quello pubblico, facevano in modo che i propri terreni fossero invasi dalle acque (solitamente dopo la mietitura) in questo modo veniva dichiarata la perdita accidentale del raccolto che determinava l’esecuzione del pagamento delle tasse. Inoltre i pescatori di frodo, i legnaioli, i mandriani ed i pecorai, pagavano ai proprietari terrieri un canone d’affitto e dovevano a questi una parte del pesce, della legna, degli animali che allevavano. Si deve quindi alle peschiere ed a chi ne abusava “… senza alcun diritto, il guasto sempre maggiore di quelle terre infelici”

Per la realizzazione di queste la tecnica era la seguente: “si restringeva il letto dei fiumi con gettarvi quantità di breccia, e si toglievano anche le pietre dalla via Appia per lastricare il fondo della bocca delle peschiere”.

In questo modo il padrone delle terre rese palustri aveva una doppia entrata senza pagare alcuna tassa a Roma ed i pescatori avevano di che vivere.

Il Papa forte nello jus romano riuscì ad espropriare temporaneamente le terre paludose ed a mandare sorveglianti alle bocche dei fiumi lungo gli argini dal momento in cui iniziarono i lavori di bonifica. Tale diritto sanciva che “(…) al sommerso fondo convertito in lago, o palude, apparterrà sempre al padrone se questi (…) sempre dimostrerà l’animo, che egli ha, di ritenere il dominio, e procurerà di deviare altrove le acque, e di asciugare il fondo. Se poi non fosse nulla di tutto ciò, e se parimenti tale fosse la quantità e la copia delle acque, che per lui non se ne potesse liberare il terreno (…) perderebbe la speranza di usufruire il fondo (…) e perderebbe il dominio”.Usufruendo di questo diritto, Pio VI riuscì a riacquisire la proprietà di tutti i terreni paludosi Pontini e, per la prima volta, ci fu un tentativo di una bonifica totale. Fatti esaminare tutti gli scritti e progetti, degli autori antichi e moderni, sulle paludi e su i tentativi di prosciugarle, al fine di trarne gli indispensabili insegnamenti, egli chiese al cardinale Boncompagni, che era Legato all’Azienda delle acque nella provincia di Bologna, di mandargli il migliore degli idraulici. Questi fu il bolognese Gaetano Rappini, che, giunto a Roma, visitò unitamente a Ludovico Benelli le paludi, a seguito dell’incarico ricevuto dal Papa, per accertare le cause delle inondazioni, per studiarne i mezzi per il risanamento e calcolarne la spesa. Ad evitare che l’opera avesse a soffrire delle controversie, che certamente si sarebbero accompagnata all’impresa, il Papa nominò quale commissario legale, l’avv. Giulio Sperandini, con facoltà altissime, inclusa quella di procedere anche contro ecclesiastici. Lo Sperandini ebbe associati, nell’espletamento del suo mandato, il notaio Gaspare Torriani, il geom. Angelo Sani ed il perito Benedetto Talani. Fu stabilito che fosse fatto carico ai possessori di terreni, direttamente o indirettamente interessati alla bonifica, di corrispondere un contributo proporzionato ai vantaggi che ne avrebbero tratto. La regione interessata alla bonifica venne divisa in “Circondario interno” ed in Circondario esterno”, comprendenti il primo i territori di Terracina, Sezze, Priverno e Sermoneta, più direttamente interessati alla bonifica, aventi una estensione di circa diciannovemila ettari, il secondo i terreni limitrofi ai primi, che, con il disciplinamento delle acque avrebbero risentito di notevoli, anche se indiretti, vantaggi. Il progetto per i lavori di bonificazione fu quello suggerito dallo stesso Pontefice al Rappini con lettera del 19 gennaio 1777, come si rileva dalla relazione che questi inviò al papa nel quale quantificò il problema delle paludi: queste occupavano un’area di 180.000 miglia quadrate, inoltre, con una relazione dettagliata, spiegò il perché delle acque stagnanti e come si fossero potuti prosciugare i terreni. Il primo grave motivo era costituito dalla mancanza di argini nei fiumi. ” (…) Nascendo inoltre molta erba palustre né fondi medesimi, si prendeva il ripiego di farla calpestare dai bufali, che li fanno correre non solo per soddisfare il loro istinto di abbeverarsi, ma anche perché si credeva che il calpestio equivalesse al taglio dell’erba e producesse lo sgombro felice delle acque, quando invece tutto ciò produceva un effetto contrario alzandosi il letto dei fiumi e perdendo l’acqua la sua velocità”. Altra causa adotta dal Rampini, era la libertà illimitata di pescare nelle paludi, poiché “si attraversano i fiumi in molte parti con cannucchiate fortificate, lasciando solamente aperta una bocca larga come il sandalo di una scarpa, le acque restando ristrette e trattenute si alzavano e rompevano quei pochi avanzi di argini. Identificate le cause, il Rampini espose il metodo con cui intendeva risanare le terre paludose. Il canale Linea Pio, scavato parallelamente alla via Appia doveva raccogliere tutte le acque ed essere reso navigabile fino a Terracina che sarebbe diventata il nuovo porto di Roma.  Il Rappini chiese il parere di altri due ingegneri bolognesi, Baldini e Zanotti. Questi davanti al Pontefice ed alla Camera Apostolica tennero una relazione sul progetto riconoscendolo come il più idoneo: “Ha provvidamente santità Vostra immaginata con il qui presente Gaetano Rappini, una linea atta a togliere tutte affatto le difficoltà, per la quale ad universale bonificazione della palude, conducono per un solo alveo unite tutte le acque al mare, verrà a dare loro qualcosa che naturalmente si sarebbero presi da sè; il che forse sarebbe seguito a quest’ora, se l’arte non vi fosse opposta”. I lavori iniziarono nell’autunno 1777, con la demolizione delle peschiere di Canso, Caposelce e di altre, causa non ultima dell’impaludamento ed ostacolo ai lavori. Fu ripulito,  sgombrato dalle sterpaglie e dalle piante, il terreno lungo l’Appia, nel quale doveva essere scavato il nuovo canale, che, in onore del Pontefice,  enne chiamato Linea Pio. Questo canale, navigabile per la lunghezza di circa ventuno chilometri, dalla località Macerie a Foro Appio, costeggia la Via Appia ed attraversa perciò la palude nel senso della lunghezza Parallelamente si iniziò anche la costruzione di capanne per gli operai e la costruzione di forni del pane. Vengono nominati i “ministri” della bonificazione con diversi incarichi: direttore abbiamo già detto, venne nominato il Rappini il quale doveva fare mensilmente un resoconto di tutto quello che avveniva nei lavori e per le decisioni di grande importanza non poteva operare se non dopo aver chiesta e ricevuta l’approvazione della Camera Apostolica. Il provveditore aveva il compito insieme al grasciere di sapere la quantità di pane che sarebbe stato necessario per il mantenimento settimanale degli operai, inoltre doveva controllare che ognuno facesse il proprio dovere e punire i rivoltosi. Il computista doveva tenere “regolare scrittura” di tutte le spese. Il cassiere consegnava e riceveva il denaro per le paghe e per le spese generali, l’esecutore, braccio destro del direttore, dava disposizioni per i lavori. Il magazziniere custodiva nei magazzini tutti gli strumenti che servivano alla bonifica, il dispensiere doveva fare la ricevuta al fornaio di tutto il pane che veniva mandato. I sovrastanti o caporali avevano l’incarico di tenere occupati gli operai e controllare le loro giornate di lavoro. L’escavazione e trasporto della terra era retribuito a cottimo. Con l’estate del 1778 si fermarono i lavori e gli operai del vicino regno di Napoli e quelli di Ferrara, Bologna e della Romagna assunti per i lavori si stabilirono sulle vicine montagne. Il motivo era facilmente comprensibile, essendo la zona malarica, nei periodi estivi gli operai abbandonavano le terre paludose. Nell’autunno 1779, la Linea Pio fu allungata di altri sei chilometri fino a Tor Tre Ponti; questo  tratto prese il nome di Linea Morta. A Ponte Maggiore, il canale fu diviso in due rami: uno si univa al Portatore per scaricare le acque a Badino, l’altro proseguiva per Terracina, ove sboccava al mare.

L’incapacità del Linea di mantenere tutte le acque si manifestò ben presto; fu necessario, pertanto, proseguire nei lavori per alleggerirlo. Si provvide a dividere le acque alte e basse, approntando due alvei diversi, indipendenti l’uno dall’altro. Le acque del Ninfa, del Teppia, del Fosso di Cisterna e di altri corsi vennero raccolte nel fiume Sisto, opportunamente ripristinato, e nel Canale delle Mole, scavato ex novo e tributario del Sisto, e per il Fiume delle Volte, nel quale il Sisto si scarica convogliate al mare. Le acque dell’Ufente, del Rio Brivalgo e dell’Amaseno furono convogliate, attraverso il Linea, nel Fiume Grosso o Portatore e, quindi, scaricate a mare nel porto di Badino. I lavori durarono circa vent’anni e, si dice, che solo nel 1780 vi attendessero circa 3.500 operai. Liberato l’Agro Pontino dalle acque, il Papa compì nell’aprile 1781 un secondo viaggio e nell’83 il Papa tornò a Terracina e nella prima giornata di udienze ascoltò le lamentele di quelli che reclamavano di essere stati privati dall’appalto sopra i terreni inclusi nel circondario e di essere stati gravati in un altro modo.

Nel maggio del 1784 compì un nuovo viaggio e “visti molti lavori abbozzati e non terminati (…) ordinò che tutti si riunissero a terminare il canale di navigazione e con questo metodo si proseguissero i rimanenti ad uno ad uno con maggiore attività”. Il rallentamento era dovuto anche agli interessi personali del Rappini. Lo stesso Papa ordinò allora che il contratto d’affitto al Rappini non venisse rinnovato e che i terreni fossero concessi a singoli contadini o gruppi di essi. Il Papa ritornò nella regione Pontina nella primavera del 1786 ed il geometra Angelo Sani gli mostrò i terreni coltivati e seminati; venne anche chiamato da Ferrara l’idrostatico T. Bonatti per controllare lo stato degli alvei dei fiumi. Nel maggio del 1787 il Papa fu di nuovo a Terracina, e in quell’occasione propose la costruzione in questa città di una abitazione per il Vescovo e per il suo vicario, un ospedale, delle pubbliche scuole, una biblioteca. Aveva anche in mente di costruire un acquedotto e di rendere salubre l’aria con piantagioni di limoni, melaranci e pini. Pio VI tornò a fare visita nei territori bonificati nella primavera del 1788 e da allora in poi andò quasi annualmente a controllare i lavori e  quando questi furono terminati, a vigilare sul loro mantenimento. Nella visita del 1791 il Papa decise di convertire le colonie in enfiteusi, ma con l’andare del tempo anche questo provvedimento venne sfruttato da pochi speculatori che, avvalendosi della loro posizione, riuscirono ad ottenere il possesso di vaste estensioni di terreno a danno dei piccoli coltivatori; gli enfiteuti dovevano pagare ogni anno alla Camera Apostolica il canone di tre scudi per trebbia di terreno coltivabile. Liberato l’Agro Pontino dalle acque, fu assicurato lo scolo dei terreni, che ricevevano l’acqua unicamente dalle piogge, con l’apertura di piccoli canali, denominati Fosse Miliari, appunto perché scavate in direzione dei cippi e le colonnette, le pietre migliare, sulla Via Appia, alla distanza di un miglio l’una dall’altra. Ne furono aperte venti e fu fatto obbligo ai coltivatori dei terreni, per l’interesse  della bonificazione, di mantenerle sempre sgombre e spurgate. Per la raccolta delle acque di queste fosse fu provveduto con la cosiddetta Fossa della Botte e con il Canale dello Schiazza. La prima, raccolte le acque dei terreni alla destra del Linea Pio, sfocia nel Portatore, e il secondo, ricevute quelle dei terreni di sinistra, si unisce allo stesso Linea. Sedicimila rubie, oltre ventinovemila ettari, vennero così messi a coltura e, per la loro bonifica e il loro mantenimento, fino al 1861 la Camera Apostolica aveva sostenuto spese per circa quattordici milioni di lire, mentre una cifra assai vicina a questa era stata impiegata dal complesso degli enfiteuti per la messa in opera degli impianti agricoli e dell’allevamento. Un solo appunto può essere mosso a Papa Braschi: di non aver saputo assicurare un’equa ripartizione dei frutti della bonifica. Alla spartizione dei poderi  intervennero con accanimento accaparratori e speculatori; i seicento assegnatari si ridussero a circa ottanta, mentre una larga fetta, oltre 7.000 ettari, veniva assegnata allo stesso Rappini (quasi 2.000 ettari), artefice della bonifica, ed ai Duchi Braschi-Onesti, nipoti del Papa. Le vicende politiche, in cui fu coinvolto lo Stato Pontificio verso la fine del secolo, determinarono la cessazione delle opere di bonifica.